Il fiume racconta
Ossessione, il film di Luchino Visconti caposaldo del neorealismo del 1943, con i suoi influssi di naturalismo francese e americano, dopo L’argine di Corrado D’Errico del 1938, ha portato i set cinematografici lungo gli argini del Po. Gli amori illeciti consumati nelle trattorie col gioco delle bocce, nella golena del fiume, giacendo con donne noir bellissime, animavano un vagabondaggio luttuoso, in contrapposizione al precedente cinema promozionale “di regime” confezionato ad arte negli studios. In contemporanea, Michelangelo Antonioni girava e realizzava il suo Gente del Po, frutto di uno studio compiuto dal regista ferrarese dal titolo “Per un film sul fiume Po”, pubblicato dalla rivista Cinema nell’aprile 1939.
Ferdinando De Laurentis intervistato a Palazzo Roverella
In Gente del Po si respira già l’aria del neorealismo: l’ambiente, il gusto dei particolari, la quotidianità dei fatti. Si mostra un paesaggio povero, caricato però dalla presenza di quei “piccoli” personaggi che si integrano naturalmente, un paesaggio fermo, “mosso” però da quei gesti consueti e perciò significativi. Alcune panoramiche, specie quelle del paesetto di sera e quelle della tempesta, e in genere tutti gli esterni sono di un’intensa e drammatica espressività. Antonioni scrisse: “Quando giravo il mio primo documentario, alla fine del ’42, Visconti girava Ossessione. Gente del Po era un documentario sulla pesca, sul trasporto coi battelli, sui pescatori: uomini, vale a dire, non cose e luoghi. Ero, senza saperlo, sulla stessa linea di Visconti. Mi ricordo molto bene che il mio rammarico fu di non poter dare a questa materia uno sviluppo narrativo, cioè di non poter fare un film a soggetto”.
Questo nuovo “vedere” trovò compimento nell’ultimo episodio di Paisà (1946), che concludeva nella zona fra Porto Tolle e Scardovari l’itinerario italiano in alcuni luoghi della Resistenza. Queste famose pagine rosselliniane sembrano quasi definire la nuova funzione dell’occhio cinematografico che, dietro l’apparente neutralità, interviene a portare a senso definito cose, fatti, paesaggio.
Rossellini, la cui madre era di Porto Viro e quindi era frequentatore e conoscitore del delta del Po, ricordava quei cadaveri che passavano sull’acqua, lentamente naviganti sul fiume, col cartello che recava la scritta “Partigiano”. Il fiume portò per mesi quei cadaveri. Una realtà tragica che il regista ha saputo rendere realisticamente cogliendo il paesaggio in un rapporto di perfetta adesione con la tragedia umana incombente. Il paesaggio emerge nella sua connotazione ben precisa, con i suoi canneti, il grande ramo del fiume e i numerosi canali che si intersecano e sviluppano in una vasta palude.
Il critico cinematografico Paolo Micalizzi premia il regista Ferdinando De Laurentis
La natura diviene partecipe della tragedia sin dall’inizio e nel succedersi del racconto assume toni sempre più drammatici: natura e tragedia umana si fondono in una sintesi drammatica perfettamente innestata nella realtà degli avvenimenti.
Seguì Il mulino del Po di Alberto Lattuada che, ben appoggiato sul romanzo di Bacchelli, proponeva un passato diverso, le lotte per la nascita del socialismo. Nel 1949, sempre nel delta, furono girate scene di Camicie rosse, con Anna Magnani e Raf Vallone e un’importante produzione documentaristica, tra cui spiccano Quando il Po è dolce di Renzo Renzi e Delta Padano di Florestano Vancini.
De Laurentis su Raidue presenta Luce sul Polesine
Il primo, impostato secondo lo stile di una prevedibile inchiesta televisiva (mix di radio e cinema) quando in Italia non era ancora stata introdotta la televisione (un giovane Sergio Zavoli faceva il radiocronista in scena), si muoveva tra due estremi contrastanti: le misere condizioni della popolazione e la bellezza del paesaggio. Il titolo alludeva al fatto che la gente, priva di acquedotti, poteva raccogliere e filtrare rudimentalmente l’acqua del fiume, per berla, soltanto “quando il Po è dolce”, come si diceva; cioè quando c’è la bassa marea e l’acqua salata non entra nel fiume. Il film di Vancini descriveva le condizioni di vita delle popolazioni del Delta del Po, fra Goro, Gorino e Scardovari.
Attraverso la situazione disagiata di una famiglia veniva raccontata quella di un intero paese che viveva in condizioni igieniche tragiche, dove le malattie imperversavano. Il paesaggio era desolato e il dramma del paese era quello di non poter sfruttare la terra: la gente lavorava un giorno su quattro e non sapendo cosa fare prendeva il sole addossata alle case.
Ferdinando De Laurentis
Poi l’alluvione del 1951 fu un evento mediatico senza precedenti che cambiò le carte in tavola anche dal punto di vista cinematografico, in quanto ci fu la corsa di cineasti a raccontare un dramma vinto da uno Stato che riuscì a ricostruire tutto in pochi mesi con gli occhi delle macchine da presa puntati. Immagini poi riprese da numerosi film, a partire da Il ritorno di don Camillo nel 1952. Accanto al filone dei fatti ci fu quello degli estri, a partire dal 1954 con La donna del fiume di Mario Soldati, film d’esordio di Sophia Loren come protagonista. Fu poi la volta di Uragano sul Po di Horst Hoechler (1956), un’opera decisamente più di fantasia che di realtà; il film si riferiva ad un’alluvione del 1920 che storicamente non era mai avvenuta. Il film raccontava la storia d’amore tra una ricca fanciulla e un famoso violinista, separati da un destino avverso. I due si ritrovarono in Polesine dopo tanti anni e giunse l’alluvione del Po che li divise per sempre. Proprio quell’anno, il maggior esperto di effetti speciali, Carlo Rambaldi, a La Pila di Porto Tolle, realizzava il suo cortometraggio Pescatori di storioni per il quale costruì tre storioni finti onde meglio poter effettuare le riprese, dato il periodo di magra per la pesca allo storione. Ma la prima tappa importante del cinema padano fu Il grido di Michelangelo Antonioni. Con questo film, il regista dell’incomunicabilità attuò un recupero della memoria, introiettando suggestioni e forme, ma nel contempo si affidò alle cose, confidò in uno sguardo estroverso che scrutava e registrava l’ambiente; dall’intreccio di queste due linee di forza nacque una delle opere di maggior rilievo del cinema italiano del dopoguerra. Il paesaggio svolse un ruolo primario di costante ma sotterraneo contrappunto, che non arrivò mai al contrasto; l’importanza che esso assunse fu quella stessa del personaggio, il cui percorso interiore si proiettava su argini, case, alberi, colori (le tonalità del bianco e nero erano così sfruttate da poterlo paradossalmente definire un film a colori). Era la storia di una mancanza iniziale che si dilatava, sottolineata da una continua presenza, quella appunto del paesaggio del Po; l’ampliarsi degli spazi, verso la foce, accompagnava la progressione drammatica del protagonista, la sua chiusura esistenziale. Era un film che si snodava anziché concentrarsi in una narrazione piena, il racconto si identificava con un errare e un “vedere”; e mentre le tonalità che lo sguardo coglieva sembravano attenuare, cresceva invece il vuoto che spingeva alla soluzione finale; la stasi suggerita dall’orizzontalità delle linee di fondo rappresentava una insinuante diversità al “movimento” interno del personaggio. Il paesaggio era oggettività ma anche proiezione di una soggettività esasperata, una propensione che si era trasferita in immagine. Il Po era qui forma, in senso pieno, che riassumeva l’opposizione, e ripresentava ancora il “mistero” di ogni immagine.
Da qui iniziò un’altra storia cinematografica che, attraverso registi che hanno fatto la storia del cinema italiano, da Bertolucci a Fellini, da Pietrangeli a Mazzacurati, a Pupi Avati solo per fare alcuni nomi, arriva fino ai giorni nostri. Se la Bassa non ha confini, quando si incontra l’acqua la fantasia prende il volo. Abbiamo tutti bisogno di raccontare, di inventare cose favolose, leggendarie. Iniziò Casadio con Un ettaro di cielo, dove il giovane Mastroianni, venditore di oggetti disparati, si inventa la vendita di appezzamenti di cielo in nome dei miracoli del progresso e un gruppo di vecchietti lo prendono sul serio e decidono di suicidarsi per prenderne possesso al più presto. Ciò era possibile perché la miserevole condizione di genti che vivevano negli sterminati paesaggi deltizi si inventavano la propria esistenza. Poi venne, in luoghi simili, Pupi Avati con La casa dalle finestre che ridono e Le strelle nel fosso a suggerire, implicitamente, un inventario di storie, favole, leggende e curiosità che si possono reperire soltanto nei pressi del grande fiume. Non a caso un altro suo film ha un titolo significativo: Aiutami a sognare.
Il paesaggio padano è spesso risultato una scenografia drammatica piuttosto che in chiave pittoresca: cieli apocalittici, orizzonti labirintici dove si stagliano profili di barche e di casoni di canne, e foschie da dove emergono pescatori, tagliatrici di canne, contadini, bambini e vecchi raggrinziti da una luce che ha i riflessi del fiume. Il Po ha una forza d’immagine che non induce alla leziosità; anche un tramonto o un temporale si trasformano in un segno apocalittico. È un paesaggio che non si dimentica.
È un argomento che non si può riportare in poche righe, in quanto si prolunga nel campo vastissimo dei cinegiornali, dei documentari, delle fiction televisive, dei cortometraggi. Questi sono solamente pochi cenni per far sapere che cinema e Po è una materia complessa e rilevante, un grande capitolo della storia del cinema non solo nazionale, che nasce negli anni ’40 e continua ai giorni nostri, ricca di opere importanti dove il fiume è protagonista, diretto o indiretto, per via di vari aspetti, storici, antropologici, naturalistici, estetici, e così via. Già in queste poche righe comunque si può scorgere un fluire di sensi e di segni utili a ricostruire un racconto per inquadrature del Po, fatto di titoli, generi, nomi, date, eventi storici, leggende, storie, racconti, di opere in successione significativa, come se il fiume stesso volesse dirci che, intanto, continua e continuerà a scorrere e ad evolversi. In questi luoghi ci sono momenti, come disse De Pisis, in cui “anche il tempo si ferma ad attendere non si sa cosa”.
Luce sul Polesine