LE VERITÀ NASCOSTE
Quanto sono storicamente credibili le leggende di epopee e di geografie antiche riportate ed a volte trasfigurate nel tempo.
Attorno all’argomento Mito si sono sviluppate da sempre teorie, concetti, interpretazioni. In ognuna di esse si possono trovare le ragioni della condivisione o meglio della visione particolare espressa. Traendone una sommatoria tra le affermazioni più accreditate ci sottraiamo al formulario ormai codificato, pur tuttavia entriamo nel campo delle citazioni che offrono un quadro di analisi preminente.
Il mito inteso sia nella sua accezione più positiva di racconto tramandato e consolidato nel tempo, dalla ripetizione é divenuto patrimonio comune, ma funzionale quale metafora alle situazioni contemporanee in ogni tempo.
Va ribadito dunque che il mito rende credibile una lettura dell’irreale o verosimile, creando una forma persuasiva di sincerità narrata in modo riconoscibile attraverso le emozioni ed i sentimenti elementari e la religiosità del genere umano.
Il mito si colloca con validità atemporale in una dimensione eterna, che fa perdere di valenza la contingenza quotidiana, poiché anche le affabulazioni eventualmente fantastiche, dato che si collocano in un passato lontanissimo, appunto mitico, vengono accettate benevolmente in quanto portatrici di verità.
Anticamente, i miti erano il riflesso dell’arrivo di genti migranti perché sviluppavano un compito propagandistico dei valori e costumi dei nuovi arrivati; mirante, talvolta, a ricostruire un passato comune, in dialettica con le popolazioni residenti. Le stesse diventavano più convinte alla formazione di comunità miste con i medesimi interessi commerciali e insediativi.
Talora il mito, anche nella sua accezione più negativa, come favola, ovvero storia inventata e priva di qualsiasi fondamento, finiva per importare un valore ideologico. Infatti localmente se ne potevano adottare le concezioni, ma adattandole ai luoghi del presente. (continua)
BASTIAN CONTRARIO
Fin dai tempi antichi c’era chi non accettava pedissequamente i racconti e se ne faceva oppositore.
Ed a proposito di Fetonte valga l’esempio che riportiamo.
Lo scrittore Luciano di Samosata, nacque nel 120 d.C. sotto l’imperatore Adriano. Fu retore e
filosofo, famoso per la sua irriverenza ed ironia dei testi. Ha scritto 80 opere conosciute*, di cui La Storia Vera è tuttora una delle più divertenti invenzioni satiriche di tutti i tempi.
Esortava gli storici di attenersi ad una storiografia fondata sull’obiettività, lontana dall’adulazione dei potenti, raccogliendo egli stesso storie e leggende della tradizione greca.
Luciano intendeva il mito come uno di quegli artifici ornamentali tipici della poesia che andava tenuto a debita distanza dalla storia.
In Electrum, ovvero Dell’ambra e dei cigni, scritto in vecchiaia, descrisse la visita di Luciano stesso sul fiume Eridano. Che fosse il resoconto di un viaggio vero o letterario, l’intento palese era di deridere la credulità popolare, mettendo in dubbio l’esistenza del mito di Fetonte e dell’ambra risalente a molti secoli precedenti.
Riportiamo integralmente il brano tratto da Settembrini L., Opere di Luciano voltate in italiano da Luigi Settembrini. Volume III. Firenze,
Felice Le Monnier, 1862
LV, pp.88/89/9
Dell’ambra o dei cigni
Certamente anche voi credeste alla favola, che l’ambra stilla da alcuni pioppi che sul fiume Eridano piangono Fetonte, e che quei pioppi erano sorelle di Fetonte, le quali, per il gran lagrimare sul giovanetto furono mutate poi in quegli alberi, donde ancora goccia il loro pianto, che è l’ambra.
Veramente anch’io udendo contar queste cose dai poeti, speravo, se mai capitassi su l’Eridano, di andare sotto uno dei pioppi, ed aprendo il seno della veste raccogliere poche lagrime, e così aver l’ambra. Finalmente non ha guari, ma per un’altra faccenda, capitai in quella contrada, e risalendo in barca l’Eridano, non ci vedevo pioppi, per guardare che io facessi d’ogn’intorno, né ambra; anzi neppure il nome di Fetonte sapevano quei paesani. Infatti io mi volli informare, e dimandai: - Quando verremo a quei pioppi che danno l’ambra? Mi risero in faccia i barcaioli, e risposero dicessi più chiaro ciò che volevo. Ed io contai loro la favola, come Fetonte era un figliolo del Sole, e fattosi grandicello chiese al padre di guidare il carro, per fare anch’egli una sola giornata: il padre glielo diede; ma ei ribaltò e morì; e le sorelle sue piangenti in qualche luogo di questi, dicevo io, perché ei cadde sull’Eridano, diventarono pioppi, e piangono l’ambra sovra di lui. Qual bugiardo e carotaio ti ha contato questo? Risposero. Noi non vedemmo mai alcun cocchiere ribaltato, né abbiamo in pioppi che tu dici. Se fosse una cosa simile, credi tu che noi per due oboli vorremmo remare, o tirar le barche contr’acqua, potendo arricchirci con raccogliere le lagrime dei pioppi?
Queste parole mi colpirono forte; e tacqui scornato, che proprio come un fanciullo c’era caduto, a credere ai poeti che dicono le più sperticate bugie, e non mai una verità. Ora fallitami quest’una speranza non piccola, mi affliggevo come se l’ambra mi fosse proprio sfuggita delle mani; perché già io avevo immaginato quali e quanti usi ne dovevo fare. Ma un’altra cosa credevo si davvero di trovarcela, molti cigni cantanti su le rive del fiume, e di nuovo dimandai ai barcaioli, che si rimontava ancora:- E i cigni a qual’ora cantano quel melodioso canto, stando sulle sponde del fiume di quà e di là? Dicesi che essi furono uomini, compagni d’Apollo, e bravi cantatori, e che in questi luoghi furono mutati in uccelli, e però cantano ancora non dimentichi della musica.
E quei con un’altra risata mi risposero:- Oggi, o galantuomo, non la finirai di dire fandonie contro il nostro paese ed il fiume? Noi che andiam sempre sull’acqua e che da fanciulli facciamo il mestiere sull’Eridano di rado vediamo pochi cigni nei greti del fiume, ma fanno un po’ di gracchiare sì scordato e sottile, che i corvi e le cornacchie sono sirene a fronte ad essi: cantare dolce, e come l’hai detto tu, nemmeno per sogno l’abbiamo udito: e però ci fa maraviglia come nei paesi vostri corrano queste novelle di noi.
Così spesse volte si cade in inganno, prestando fede a chi esagera le cose. Onde anche io ora temo per me, che voi testé venuti, e che la prima volta mi ascoltate, sperando di trovare non so quali ambre e cigni nelle cose mie, tra poco ve ne anderete ridendo di chi vi dava ad intendere che v’è tanta bella roba nei miei discorsi. Ma io chiamo in testimonio tutto il mondo, che né voi né alcun altro mi ha udito, né mi udirà mai, vantarmi delle cose mie. Altri non pochi incontrerete, veramente fiumi Eridani, su i quali non ambra, ma oro proprio stilla dai discorsi, e sono più melodiosi dei cigni poetici: il mio dire lo vedete com’è, semplice, alla buona, e senza sonorità alcuna. Onde badate che aspettandovi troppo da me, non vi accada come a quelli che guardando una cosa nell’acqua, credono che la sia tanto grande quanto pare a vederla da su, dilargandosi l’immagine per la luce refratta; quando la cavano fuori, trovandola molto più piccola, se ne dispiacciono. Io dunque ve lo dico innanzi, e tolgo l’acqua, e mi discopro: non v’aspettate di cavar fuori qualche gran cosa, o accagionate voi stessi della vostra credenza.
* Per quanto concerne la bio e bibliografia si rimanda a Wikipedia.